In un reportage televisivo, pochi giorni fa, fra le macerie di una città ucraina, una vecchia donna – vecchia?, della mia età, più o meno e io non mi ritengo vecchia, ma sì, lei sì, vecchia, occhi di non so quale colore, ma grigi come il cielo bombardato alle sue spalle, occhi sfondati, secchi di pianti esauriti, in una faccia bianca bianca – loro hanno la pelle bianchissima, ma era un bianco irreale per una faccia viva, per una bocca che rispondeva al giornalista: Prima non c’è più. Adesso vivo dentro la guerra. Delle altre parole non sono sicura al cento per cento, ma di quel vivere dentro la guerra, sì. Con un senso di normalità acquisita, una accettazione – no, non accettazione, piuttosto presa d’atto, consapevolezza quasi ricalcata di una realtà inoppugnabile. Ma che ti ci fa vedere come attraverso e più in là, molto più in là: ti ci fa stra-vedere, oltre-vedere, sopra-vivere. Di colpo si sono sovrapposte altre parole: “Meglio subire in silenzio il presente – senza desiderare il passato – né protendersi al futuro.”: di Carla Simons, nel gennaio del 1942, Amsterdam, ebrea.
Ho smesso allora di chiedermi cosa mai ci fosse in quell’aria di Amsterdam che faceva fiorire, nel gorgo del più terribile maelstrom che la storia ricordi, pensieri così profondi, così veri veri, così potentemente e assolutamente e universalmente etici, in tre teste di ragazze ebree affamate, testimoni quotidianamente di orrori e paura, costantemente sull’orlo del baratro: Caroline, detta Carla, Simons, Etty Hillesum, Anna Frank. In fondo la lontanissima ucraina-nonucraina brasilera Clarice Lispector, ebrea anche lei, ha spesso momenti di incredibile consonanza etica con le tre olandesi, soprattutto in quei brevi quadri di La scoperta del mondo, ma anche nel cuore più palpitante di Acqua viva e di La passione secondo G.H., e, certo, di tutti gli altri suoi scritti. Se la sua famiglia fosse rimasta in Ucraina, anche Clarice probabilmente avrebbe chiuso la sua vita ad Auschwitz. Per ragioni – a mia volta – etiche, non potrei neanche rifugiarmi nel tutto sommato luogocomune be’, gli ebrei, sai, Marx, Freud, Einstein, Arendt, Kafka, Woody Allen… Una mia amica, per acquietarmi e farmi uscir di razza, ha provato anche con: eh! là al Nord, si sa: le Beghine più toste, Giovanna d’Arco, Matilde di Magdeburgo, Ildegarda di Bingen…
Mi sarebbe venuto anche al pensiero la magica parola quantistica entangled[i] (correlate), ma in fondo mi piace di più il diversamente significante empatiche[ii] e donne. La vecchia donna ucraina, la nonucraina brasilera Clarice, Etty, Anne, Carla Simons, tutte in un grappolo. E nel grappolo acquista un senso profondo quel “vivere dentro la guerra”. Carla dice:
“Viviamo nelle cose che ci circondano, ma anche le cose che ci circondano si riflettono in noi. (…) Come se vedessimo le cose in modo stereoscopico in rilievo su uno sfondo eterno. Come se tutto ciò che accade attorno a noi colpisse una cassa di risonanza nascosta, riempendoci di ondate di esperienza.” Febbraio 1942, p.14
E dice Etty Hillesum:
“Eppure, mentre sono così isolata dal mondo esterno, dagli oggetti di questa camera, dall’uomo là dietro alla sua scrivania, queste cose sembrano vivere dentro di me una vita limpida come il cristallo. È una sorta di esclusione dal mondo esterno, un essere avvolti in veli, ma a dispetto del sogno e dello stato onirico, dentro di me tutto è di una chiarezza quasi matematica.” Sabato mattina [13 dicembre 1941] Le undici e mezzo, p.278[iii]
Dice Clarice:
“Dammi la mano. Ora ti racconterò come sono entrata (…) in quello che esiste tra il numero uno e il numero due, come ho visto la linea di mistero e di fuoco (…) Non è uno stato di felicità, è uno stato di contatto. (…) In quel deserto io stavo sperimentando il fuoco delle cose (…) Io stavo vivendo la tessitura di cui sono fatte le cose.”[iv]
Anne, poi, nella sua clausura, vive e vede continuamente a rilievo, cose, animali, ma soprattutto le persone che le stanno intorno, e, non certo ultima, se stessa:
“Scrive [Sis Heyster] negli anni della pubertà le ragazze diventano silenziose e si chiudono in sé pensando alle meraviglie che accadono nel loro corpo. E’ una cosa che è capitata anche a me (…).Quello che mi sta accadendo lo trovo così meraviglioso, e non solo l’aspetto esterno del mio corpo che si vede, ma anche i cambiamenti interni.(…) Ogni volta che sono indisposta (ed è accaduto appena tre volte), nonostante il dolore, il fastidio e la sporcizia, ho la sensazione di portarmi dentro un dolce segreto, per questo, anche se non mi procura che noie, ogni volta aspetto con gioia il momento in cui tornerò ad avvertire dentro di me il dolore segreto. Poi Sis Heyster scrive anche che le ragazze giovani in quegli anni non si sentono sicure e scoprono di essere persone adulte con idee, pensieri, abitudini. Io, visto che sono arrivata qui a tredici anni compiuti da poco, ho cominciato prima a pensare a me e ho capito di essere ‘una persona’.” Giovedì 6 gennaio 1944, p.150[v]
Come il sasso piatto che rimbalza sull’acqua, le adiacenze, le analogie si moltiplicano, si richiamano – ad esempio, in correlazione col mestruo di Anne, il mal di stomaco che Etty non solo scala come una montanara di rango, ma ne fa filtro per profonde riflessioni anche su di sé; e il ‘malessere’ di Carla che la fa sussultare come uno yo-yo tra un distacco snervato dal mondo e una riconquistata, pretesa, gridata fiducia in un futuro capace di ribaltare il male presente; e nel dolore del cancro, poche ore prima della morte, la certezza di Clarice di essere “un oggetto amato da Dio”, per cui le sbocciano “fiori nel petto”. Sarebbe bello continuare per le pagine e pagine, e trovare quei tesori di donne che le intrecciano. A qualcun’altra, comunque, questa probabilmente entusiasmante ricerca.
Qui, di Carla Simons, voglio soprattutto parlare; perché è l’ultima arrivata – mentre scrivo, il suo diario è stato pubblicato in Italia solo da un mese – e ancora pochi la conoscono; perché è un dono inaspettato di Romana Guarnieri, che non fece in tempo a consegnarlo alle stampe, ma lo lasciò con un indelebile contrassegno di importanza e bellezza. E perché trascina fuori da quell’anonimo silente collettivo che usiamo abitualmente – vittime della Shoa – ancora una persona, una storia, un pensiero che fu incarnato e vissuto e rovistato e fermato così nella scrittura, non per incistarsi in un futuro intuito molto poco probabile per sé, ma per testimoniare quell’“unico vero” –leopardianamente – che per lei era l’“ora”, l’adesso, l’hic et nunc. Anche se da “subire”, più che da vivere.
Una signora, ci dice nelle prime pagine, non vuole le mimose, perché “durano così poco”; allora lei, proprio per questo: “dai a me le mimose”, perché, se è vero che hanno un tempo brevissimo, costando inoltre l’“ultimo fiorino”, “rimarranno impresse in me per sempre”, “Lanose e ondeggianti (…), profumate come un sogno di promessa.”. Ecco due estremi, due antipodi che spesso costruiscono una prospettiva del suo senso del tempo.
“Ma, in questi tempi aridi, quale disperato desiderio di ascesa, della gioia un tempo conosciuta! (…) Ma la scintilla arde senza mai spegnersi e un giorno la fiamma divamperà alta, saremo di nuovo sollevati e trasportati oltre questi limiti, toccheremo le vette dell’immensità e sbocceremo, in questo senso di infinito, come fiori infuocati, come soli infuocati.” Maggio1942, pp.30-1
Altri due estremi esistenziali sono, da una parte, la precisa cosciente sensazione di unicità, irrepetibilità, solitudine dell’individualità:
“(…) ogni essere umano è intrappolato nella propria crescita. (…) Separatamente, siamo tutti compagni, fianco a fianco. Ogni essere umano è una pianta a sé; le radici si intrecciano sotto la terra, ma lo stelo deve elevarsi al cielo da solo.” Maggio 1942, p.26
“L’individuo, così come esiste e si manifesta, è assolutamente ‘einmailg’ [unico] (…) Una sola volta vive questo individuo, questo essere che sono, questa creatura nel mezzo del creato. In questo modo, in questo tempo, in questa maniera. (…) Ma gli alberi ringiovaniscono ogni anno, ogni primavera conoscono la gioia della fioritura (…) per noi ogni rinascita, ogni fioritura è un passo avanti verso l’ultimo episodio. ‘Una volta è tutto e mai più.’” Maggio 1942, pp.29-30
Dall’altra la consapevolezza di una connessione profonda con tutto il resto del vivente che non solo supera i limiti dell’isolato ‘io’, ma annulla anche il relativo senso di spazio e di tempo:
“Allungo la mano e tocco uno dei ramoscelli più alti. (…) Percepisco la vita che esitante comincia a gonfiarsi. Non sono più sola, così legata all’albero a cui somiglio: i piedi radicati in terra in attesa. (…)
Che importa se le cose sono di breve durata ai miei occhi mortali quando io stessa porto in me la loro eternità?” Gennaio 1942, pp.7-8
“Anche il guardarsi attorno a sé dà la sensazione di essere connesso con le cose circostanti, di essere parte del mondo e del creato – ma ancor più ‘se chiudi gli occhi’, se ti separi da ciò che potrebbe disperderti (…) Ancor più quando ti guardi dentro, con gli occhi chiusi, e senti la profondità insondabile della tua coscienza, del legame interiore e trascendente che ti lega alle cose eterne. (…) Sì, sento di essere viva. Con tutti i miei sensi. Con il mio corpo, la mia mente, la mia anima. Con un’indistruttibile sensazione di eternità.” Giugno 1942, p.35
E’ probabilmente questa capacità di non bloccarsi nella contingenza, nel limite, nell’inoffensività del suo essere singolare, di fronte all’illimite, al potere prepotente e corale della violenza, all’orrore quasi inimmaginabile del male – che pure vive ogni giorno, e affronta e non evita di farsene straziare –; forse è questo a permetterle di opporsi in un modo del tutto speciale – quasi un noli me tangere –, di rifiutarne il degrado, l’annichilimento, la resa, facendosi forza della sua straordinaria vitalità, della sua fortissima etica, della grande cultura che giorno per giorno sembra dare le risposte di incoraggiamento mancanti a quel mondo martoriato.
“La bellezza resta immortale. L’amore resta immortale (…) e dobbiamo lottare per salvare ciò che vale la pena salvare (…). Tra biancospini rossi come rose, a fianco di gigli bianchi cammino, in questo primo sole, dopo una primavera così tetra. (…) Vietato agli ebrei. Poi mi fermo vicino a un albero in fiore e lo guardo intensamente con il mio essere più profondo, con il mio io più profondo. Cercare il nostro universo in un albero, l’emozione divina in un mazzo di violette, la gioia incolpevole di questo giorno di maggio (…) Illimitatezza dell’universo, illimitatezza della nostra percezione ed esperienza.” Maggio 1942, p.29
“(…) a tavola Hedda dice ai bambini: ‘Mai dimenticare né perdonare il male che ci viene fatto’, e tutto in me dice:no! Non è giusto, così non arriveremo da nessuna parte! E questa mattina leggo nel tredicesimo canto [del Purgatorio di Dante]: dimenticare, perdonare, e amare il nemico!” Ottobre 1942, p.63
“(…) guardo sul giornale la foto di due ufficiali tedeschi che si sono addormentati in un carro armato. Niente è più toccante di questi volti dormienti. Questa resa incondizionata al sonno (…) La mano è ancora sulla pistola, ma la malvagità è sparita. Sono questioni delicate (…). Ai più, l’odio corrode il cuore così profondamente da non lasciare spazio alla pietà.” Febbraio 1943, p.91
“Quando sento gli uomini grigi che si avvicinano marciando [le truppe tedesche d’occupazione], mi attraversa una simile compassione. Naturalmente sarò felice quando la nostra città sarà liberata da questa fosca piaga. Ma non provo odio, solo pietà per questo materiale umano sopraffatto e privo di volontà.” Febbraio 1943, p.99
Un’apertura comunque, una disponibilità all’altro, che non le impedisce di vedere e di giudicare severamente comportamenti che potremmo definire con Hannah Arendt della ‘banalità del male’, come quelli dei coniugi Klein, che chiudono occhi e orecchi alla tragedia della deportazione degli ebrei per non farsene ‘agitare’, che si lamentano della scarsità di viveri solo se rischia di essere compromessa la convenzionale mistura per il loro abituale porrigde; o come l’affollarsi di tutte quelle persone al sequestro di vecchi, bambini, malati in barella, donne coi lattanti in braccio, ragazzi da parte dei tedeschi, per avviarli ai treni diretti allo sterminio, che ormai tutti sanno o intuiscono:
“Dalle finestre si sente gridare: ‘Portano via gli ebre!’, come se si dicesse ‘raccolgono fagiolini’ o ‘estirpano le patate’: un ‘Tatsache’ [fatto, dato di fatto]. (…) All’improvviso cala l’oscurità (…) Le finestre vengono chiuse. Le persone si disperdono. È passato. I bambini tornano a giocare. I passanti camminano. Li sento parlare indifferenti, ignari di quello che è successo qui un quarto d’ora fa.” Settembre 1942, p. 46
E nemmeno le impedisce una severa sorveglianza critica delle differenze di sorte, delle ingiustizie di classe, oggettivamente opposte – quando non decisamente da addebitare – alla propria, e di molti altri ebrei, condizione benestante:
“A tavola Hedda dice: ‘non possiamo tenere mamma gatta e il gattino. Mangiano troppo’. (…) Ci ridiamo su, è una parola detta per scherzo. Eppure non del tutto. (…) L’animale riceve tre volte al giorno una ciotola di latte, verdure e patate, e l’ultima volta la domestica non ha forse guardato il piattino pieno, mentre veniva portato fuori per mamma gatta? I gatti mangiano troppo. Ci ridiamo sopra, ma in questo c’è qualcosa di amaro.” Ottobre 1942, p.64
“Mentre taglio la carne nel piatto, vedo su di essa l’estremità del timbro viola. Anche se la carne è un lusso al giorno d’oggi, non riesco più a mangiarla. Vedo davanti agli occhi la scena della mandria di vitelli (…) E vedo davanti a me la truppa di soldati che è passata (…) stamattina cantando.” Febbraio 1943, p.99
Un coerente occhio critico che non esita a stigmatizzare alcune situazioni anche con una durezza, a volte, che spiazza noi stessi lettori:
“I genitori di Paul sono stati deportati mentre erano a letto. Sono stati presi con addosso indumenti acchiappati frettolosamente, senza alcun bagaglio. La madre ha settantacinque anni, il padre ottanta. Comprendo il dolore di Paul. (…) Ma non capisco perché la gente aggiunga alle proprie proteste: ‘Ed erano abituati così bene’. Per far sembrare la crudeltà ancora più crudele? (…) Non è stata invece più crudele nei confronti di quelli che hanno sempre vissuto una vita amara, che mai sono stati sazi e mai hanno dormito sotto le coperte al caldo? (…) Orribile è il destino che è toccato ai genitori di Paul. Persone ricche e viziate, cacciate dalla loro comoda casa. Ma provo maggiore pietà, una compassione più profonda, per i poveri che sono stati colpiti, che da sempre sono miseri e infelici” Settembre 1942, pp. 54-55
A volte, nonostante la sua capacità di reazione, Carla sembra sopraffatta dall’orrore che la circonda:
“Non ho mai sperimentato la stanchezza, la scissione con la natura in modo così doloroso. Per la prima volta nella mia vita la primavera è arrivata senza che io me ne accorgessi. (…) Dopo questo caos verrà un nuovo ordine. (…) Ma sarà ancora per noi? sarà ancora per me?” Aprile 1943, p.98
“E quale sarà il cambiamento che questi tre anni di guerra hanno fatto maturare in noi? Molti dicono scettici: gli uomini non cambiano.” Febbraio 1943, pp.88-89
Mai comunque le viene meno la profonda fiducia nel possibile meglio del futuro:
“Ma quando la sera vado a letto e resto sveglia pensando alle mie letture, che ricche e piene si sono effuse in me, so che ‘la vita è più forte della morte’, e che ci sarà concesso di sperimentare la fine di questo tormento” Agosto 1942, p.40
“Un giorno, anche la nostra angoscia sparirà nel vento. Un giorno, dopo questo vortice di disgrazia, nascerà un chiaro giorno, un inizio di pura promessa.” Febbraio 1943, p. 99
“Molti dicono: gli uomini non cambiano. Ma io non voglio crederci. Allora questa catastrofe apocalittica non avrebbe avuto senso, ma nel mondo creato nulla è senza senso (…) Ci deve essere un cambiamento in ognuno di noi; una nuova consapevolezza, una percezione più profonda, un desiderio di essere puri e migliori.” Febbraio 1943, p. 89
E anche quando lei e le persone a lei più care si trovano a loro volta davanti al “più amaro dei giorni”, nel momento degli addii e degli ultimi baci, Carla ancora si chiede se ha fatto abbastanza per la madre, ancora si sente in debito. E mentre si interroga su quello che sarà, immaginando amarezze, ma ancora non volendo escludere qualche “dolce gioia”, si immerge nel più alto, enigmatico, umano momento della Passione: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice, tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà.”. Una con Lui, una di Lui. Come le Mistiche. Le Mistiche che tanto bene conosceva Romana Guarnieri, da riconoscerla subito anche lei. Oltre il limite della propria vicinissima morte, con quel biglietto incollato sul diario di Carla Simons: “Bellissimo. Da pubblicare anche in Italia”.
[i] Non starò certo a tentare di spiegare il significato a chi non lo conosce. Mi limito a indicare Carlo Rovelli, Helgoland, Adelphi, Milano, 2020, pp.100-102 o Federico Faggin, Irriducibile, Mondadori, Milano 2022, pp.46 e sgg.
[ii] Ho volutamente rubato l’espressione a Laura Boella, di cui invito a leggere Empati. L’esperienza empatica nella società del conflitto e Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina Editore, Milano:2018, il primo, 2006 il secondo.
[iii] Etty Hillesum, Diario 1941-1943 edizione integrale, Adelphi, Milano 2012
[iv] Clarice Lispector, La passione secondo G.H., Feltrinelli, Milano, 1991
[v] Anne Frank, Diario, edizione integrale, Finegil Editoriale S.P.A., Roma 2006
2 marzo 2023
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